Quando critica significa querelle
Scontri, dibattiti, polemiche: ecco le ultime dal fronte
La critica letteraria spesso viene definita come uso e riuso in favore del lettore.
Beh, probabilmente è un errore perché critica, mai come in questo periodo, ha coinciso con querelle, lotta, scontro e sinonimi.
Il meccanismo è molto semplice: basta mettere insieme in una stanza critici prestigiosi più o meno seri, con orientamenti politici ed ideologici più o meno diversi, con il pretesto di un convegno su un grande autore della nostra letteratura. Se ne ottiene una bomba ad orologeria, un’arma carica pronta ad esplodere con tanto di turpiloqui e, in alcuni casi , sedie rovesciate e pugni (non al vento).
E’ quanto si ripete, indistintamente, da molti anni: è quanto è successo anche oggi (ieri per chi legge, N.d.R.) in occasione del settimo convegno milanese “Manzoni tra Illuminismo e Romanticismo”.
Già dal titolo, ci sarebbe di che preoccuparsi: pare quasi che gli organizzatori vivano in un tempo ciclico, scandito dalle annuali querelle che ogni volta sembrano orientate su posizioni sempre più estreme.
Si era partiti con la polemica, di influsso gramsciano, portata avanti da Lo Nigro, che definiva Manzoni non più come paternalista ma come “equivoco democratico”. Aveva risposto Sapegno, affermando che “tale termine è forviante perché pone in secondo piano la vera sostanza democratica del pensiero di Manzoni”. Ci si era interrogati, poi, sulla componente giansenista nei Promessi Sposi. Anche in questo caso, i critici non si erano fatti pregare: Lo Russo, de Sanctis, Petronio, Giacalone, Marchese, tutti pronti a leggere e rileggere, interrogare ed interrogarsi, come tanti segugi sulle tracce di ogni intervento, frase, parola, che potesse far pensare al binomio Manzoni – Pascal. In ultimo, poi, la fatidica domanda: Manzoni è il caposcuola del romanticismo? Probabilmente, anche il migliore degli studenti non riuscirebbe a sopravvivere alla mole di informazioni, esternazioni, commenti disseminata in tutto il globo, a risposta di questo dubbio amletico.
E quest’anno, ancora una volta (presumibilmente per non annoiarsi, o per permettere a noi giornalisti opinionisti di scrivere il nostro pezzo) i letterati hanno ben pensato di inventarsi qualcosa. Perché non parlare dei Promessi Sposi?. Ne sono emerse quindi interpretazioni, chiavi di lettura, contrastanti ma in alcuni casi interessanti, a partire dalla serrata polemica tra dirigisti e continuisti.
Già dai primi giorni del convegno, infatti, si erano formati due schieramenti opposti ma ugualmente agguerriti: il primo, capeggiato da Varese e Lo Nigro, definisce il Fermo e Lucia come autonomo rispetto ai PS; tutti gli altri, invece, preferiscono rifarsi a Figurelli ed al suo eterno lavoro.
Ma non è su queste definizioni quasi scolastiche che voglio soffermarmi. Ben più importante, secondo me, è la tendenza di molti critici (ebbene sì, qualcuno esiste e resiste ancora oggi ) a considerare Manzoni come ottimista, perfettamente integrato nella cultura romantica dell’idealismo filosofico. Motivazione addotta : nonostante il Romanticismo sembri essere il trionfo degli stati d’animo tristi e melanconici, il Romantico, per sua stessa natura, tende a cercare il positivo al di là del negativo. La riprova in Manzoni è data dall’ormai abusato sugo della storia. Parola chiave in questa tesi, poi, è l’ormai cara vecchia provvidenza, panacea di tutti mali: Renzo e Lucia possono sopportare le peggiori sofferenze, tanto sono coscienti che lassù, in cielo, qualcuno li ricompenserà.
Meno male che a sostenere il mio tentativo di difesa (Manzoni forse mi avrebbe ringraziato) ha contribuito Petronio che, in un suo (ed è proprio il caso di dirlo) provvidenziale intervento non solo ha sottolineato i temi fondamentali dei Promessi Sposi (definiti come epopea del terzo stato) ma ha anche posto l’ultima -e spero definitiva- parola sul romanzo della provvidenza. Petronio, infatti, ha ribadito ciò che anch'io, nel mi piccolo, ripeto ormai dal 1983, quando in postille a “Il nome della rosa” affermavo la necessità di distinguere tra un lettore debole ed uno forte, avvertito. Allo stesso modo, se si nomina la provvidenza, non si può farlo imprudentemente: bisogna ricordasi infatti che se per Renzo e Lucia (e con loro tutti gli umili) l’intervento divino “premia i buoni e punisce i cattivi”, la concezione dell’autore implicito risulta essere molto più complessa. E, si veda bene, si parla di autore implicito, senza nessun riferimento all’Alessandro Manzoni nato a Milano nel 1785 e convertitosi nel 1810….
E’ in questo senso che assume valore l’ormai celebre formula eterogenesi dei fini: la Provvidenza sembra infatti divertirsi a contrastare i progetti umani, che risultano tutti irrimediabilmente fallaci. Il progetto divino, infatti, non può concretamente realizzarsi sulla terra, teatro di sanguinose vicende (ed in questo senso si parla di pessimismo manzoniano, inteso come consapevolezza della tragedia della storia) ma deve essere visto sub specie aeternitatis, secondo un’ottica non umana ma divina. Del resto, prima di noi, anche Calvino aveva proposto un’impeccabile analisi narratologica dei Promessi Sposi, determinati in base a dei rapporti di forza, volti ad esprimere la violenza istituzionale (intimidazione , inganno) del potere religioso forte nei confronti degli umili.
Detto questo, rimando migliori e più articolate discussioni alle pagine di un futuro saggio o di qualche Bustina di Minerva di prossima pubblicazione, permettendomi però a confutare fin d’ora quello che so saranno le argomentazioni a sostegno del Manzoni ottimista: il pessimismo è testimoniato dal fatto che anche dopo il sugo della storia le peregrinazioni dei due sposi continuano.
Le disavventure, insomma, non finiscono mai: lo sanno bene i poveri critici che oggi, mentre il dibattito si faceva sempre più acceso, hanno rischiato se non la vita , almeno l’udito.
(Sara Savini)